L’Expo di Milano è iniziato, con le sue glorie e contraddizioni. Ci fa riflettere sul cibo, questo prezioso elemento quotidiano che non manca mai sulle nostre tavole (e anche nei nostri cassonetti...). Ma io mi domando: siamo proprio sicuri che quando si parla di cibo, si vuole intendere la stessa cosa dappertutto?Perché, se non diciamo la stessa cosa, rischiamo di non capirci, o di far finta che tutti abbiano il nostro stesso modo di pensare, o di avere aspettative esagerate riguardo ai risultati di questa manifestazione, che dovrebbe avere almeno come punto di partenza un “parlare comune” per mettere le basi per un “agire comune” in fatto di alimentazione.-Per noi (italiani, europei, occidentali...) il cibo è ormai, quasi totalmente, quello che compriamo. Ma in altre parti del mondo non si usa se non in minima parte questo modo di procurarsi il cibo; se ne conoscono altri: lo si coltiva, lo si trova, lo si scambia, lo si regala. In effetti, il salario familiare serve per le grandi spese, quali le utenze della casa, o le feste, i viaggi, la scuola, la sanità (dove bisogna pagarsi tutto, dall’ago per cucirsi una ferita al bisturi del chirurgo...), per il pranzo quotidiano basta il piccolo commercio della donna. Ma noi che compriamo non ci accontentiamo facilmente: per poter assicurare un approvvigionamento di cibo indipendente dalle stagioni, dal tempo e dai cambiamenti, e poter comprare e consumare le primizie che si coltivano bene in altri luoghi del mondo (esempio cacao, caffè, frutta esotica, ecc.), imponiamo ad altri stati di coltivare quei prodotti, a scapito di altri prodotti, meno ambiti da noi ma necessari per la loro vita. Il risultato è che quei popoli sono costretti a “comperare” ciò che prima avevano gratuitamente dalla terra, e così la loro economia familiare (e spesso anche statale) salta, creando povertà e dipendenza. E allora mi chiedo se un diritto universale, connesso strettamente all’esistenza stessa dell’uomo, può essere condizionato: chi non ha tecnologia per produrre su vasta scala e denaro per acquistare, come potrà garantirsi il diritto al cibo?- Proprio sul diritto al cibo è la questione: nelle dichiarazioni universali (scritte da noi) il diritto al cibo non viene classificato nell’elenco dei diritti civili e politici (es. diritto alla vita), ma tra i diritti economici, sociali e culturali. Perché? Non è un prezioso bene primario? Certo, ma se noi lo compriamo, è logico che lo consideriamo un bene economico. Così per noi il cibo ha una quotazione di mercato, e il prezzo dell’alimento determina anche la sua effettiva utilizzazione. Comporta anche altre conseguenze, come la gestione mondiale dei prodotti, appannaggio di chi ne sovrintende i passaggi. Ad esempio, per il cacao e il caffè, chi trasporta, trasforma e commercia ricava il 94% del prezzo finale, mentre al contadino che cura la pianta per tutta la vita rimane solo il 6%.- Connesso con questa attenuazione del diritto al cibo, vi è un problema che riguarda il concetto di limite (che del resto è comune in tutti i discorsi sul progresso): chi ha raggiunto la garanzia del diritto al cibo e della libertà dalla fame, ha diritto di occuparsi del proprio miglioramento, anche se una parte dell’umanità non ha ancora quelle garanzie? O si arriva a un punto in cui il miglioramento di qualcuno compromette il diritto al cibo di qualcun altro?- Altro dettaglio: per noi il cibo è immediatamente connesso con la persona che lo assume, altrove è essenzialmente una realtà comunitaria, dove il mangiare è un rito pressoché religioso - come del resto dovrebbe essere da noi, che abbiamo nel “banchetto dell’Eucaristia” il primo e fondamentale riferimento, sia per quanto riguarda la presenza del Signore (Commensale e Cibo allo stesso tempo), sia per quanto riguarda i fratelli (la carità = provvedere ai poveri). Ma la nostra mentalità emerge anche da come leggiamo il Vangelo: ad esempio, il miracolo di Gesù in riva al lago noi lo chiamiamo “moltiplicazione” e non “divisione” dei pani e dei pesci. Non è solo un dettaglio: sono tante persone, perciò si pensa che il Signore abbia dovuto moltiplicare; se si pensasse di più al suo gesto d’amore, si capirebbe che è stata una con-divisione.Spero ardentemente che l’Expo non si dimentichi (o non nasconda volutamente) queste spinose questioni.
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