«Se nessuno me lo chiede lo so. Ma se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». Così diceva Sant’Agostino a proposito del tempo. Così potrei ripetermi io oggi a proposito di parolacce, un argomento tanto spinoso quanto delicato, ma che merita una grande attenzione. Non so spiegarmi perché in tanti ricorrono a espressioni volgari anche in contesti pubblici che un tempo ne erano esenti. Non ho spiegazioni da dare se non quelle limitate a registrare che i tempi sono cambiati a tal punto da sdoganare tante di quelle parolacce che prima erano motivo di censure mentre oggi fanno parte del nostro vocabolario. E’ di questi giorni la notizia di tanti libri messi in bella vista nelle librerie, i cui titoli riportano parolacce. Pare che vadano di moda. E non solo nel campo dell’editoria. Sento spesso parolacce mentre ascolto la radio, nello scambio di battute tra ragazzi, parolacce tra genitori e figli, tra adulti, parolacce nelle canzoni, parolacce in ogni luogo e per ogni età e ora anche utilizzate per presentare libri. Cosa ancor più preoccupante sono le parolacce che vengono fuori dalla bocca di uomini politici. Un esempio emblematico sono le battaglie di Beppe Grillo che pur non essendo un membro (ahia! Ho detto una parolaccia anch’io) del nostro Parlamento, oramai condisce tutti i suoi interventi con parolacce a più non posso. Il nostro comico nazionalpopolare, ora politico impegnato, sembra ispirato a tal punto da ottenere un ritorno in tema di attenzione tra i più alti e divertenti con il suo celebre «Vaffa day». Stessa cosa per il mondo della canzone. Sono tanti i cantanti che ricorrono alle parolacce per dare risalto al messaggio canoro. Ricordo molto bene alcune canzoni di Marco Masini che aveva tra i suoi fan anche qualcuno in famiglia: «Vaffanculo» e «Bella Stronza» hanno persino guadagnato posizioni nella classifica delle canzoni più ascoltate negli anni novanta. Abbiamo parolacce anche tra i poeti. Il nostro sommo Dante nel XXI° Canto dell’Inferno non trova espressione migliore che quella di affidare a Barbariccia, nome inventato e dato a un diavolo, di dare il via alla marcia dei diavoli con il famoso verso che tante risate ha suscitato in noi studenti, «Ed elli avea del cul fatto trombetta». Ma è bene sottolineare che simile espressione nulla ha a che vedere con quelle di Grillo o di Masini dal contesto completamente diverso. Il turpiloquio si fa, talvolta, anche metodo di comunicazione che rende simpatica e ben accetta la persona che lo interpreta. Questo strano e sdoganato modo di esprimersi è diventato una moda, un modo di presentarsi, una caratteristica che contraddistingue la persona intraprendente da una educata. Ora dobbiamo fare i conti anche con una certa cultura che vuole imporsi all’attenzione dei lettori con titoli volgari. Ciò che più fa pensare è che il metodo funziona! Il titolo volgare vuoi per curiosità, vuoi per stupore misto a contrarietà, attira l’attenzione del lettore che sfoglia qualche pagina e spesso finisce anche per acquistare il libro. Se poi il titolo è accompagnato da un disegno o da un fumetto che fa da guida al lettore, allora si ottiene un doppio effetto. E’ pur vero che l’uso della parolaccia risale nel tempo e nella storia, anche se con sorpresa, leggendo qua e là vengo a scoprire che la prima espressione volgare, risalente alla fine dell’anno mille, la si trova nei sotterranei della chiesa di San Clemente a Roma dove è rappresentata una simpatica scena con una nuvoletta che a mo’ di fumetto contiene un invito rivolto ad alcuni servi a tirare una pesante colonna: «Fili dele pute, traite. Gosmari, Albertel traite! Falite dereto colo palo Carvoncelle». Dietro questa espressione c’è un storia che dà significato a quel «Fili dele pute» che la nostra lingua col tempo ha modificato in espressione volgarpopolare. Dunque il ricorso alla parolaccia ha la sua storia e le sue iniziazioni e in questo le allusioni, i doppi sensi hanno un loro spazio sociale che talvolta sostituisce egregiamente la parolaccia. E’ passata alla storia delle allusioni l’espressione di un consigliere comunale di Perugia che per offendere un avversario politico non trovò di meglio che dirgli: «Taci tu che per farti curare la testa devi andare dall’urologo». Nessuna di queste parole è offensiva, eppure lascia trarre le conclusioni a chi ascolta e nell’intimo ognuno si crea la sua versione originale. E’ un’espressione che ha un peso, ma che non lo manifesta. Eufemismi e sinonimi, per esempio, hanno fatto grande Benigni che in una delle trasmissioni del sabato sera degli anni novanta si rivolge a Raffaella Carrà con un lungo elenco di sinonimi per descrivere gli organi sessuali maschili e femminili. Ma a un comico, candidato premio Nobel per la letteratura, si può perdonare tutto. Non così per espressioni che non ricorrono a sinonimi per descrivere volgarmente una persona. Sono parolacce che fanno parte del vocabolario della nostra lingua, usate in maniera dispregiativa, a cui ormai non si dà più peso. Dobbiamo forse rassegnarci? Possiamo forse fare buon viso a cattivo gioco quando ci troviamo di fronte a chi ci manda a quel paese o a chi ci dà del «testicolo»? Prendiamola con filosofia, che ci aiuta a ragionare anche su certi significati come quel «testicolo» apparentemente offensivo, ma etimologicamente inoffensivo se partiamo dal suo autentico significato latino. Deriva, infatti, dal latino «testiculus», ovvero «parvus testis», ovvero «piccolo testimone». Ecco. Un simile significato ci porta a diventare «piccoli testimoni» di grandi eventi in quanto spettatori della società che si evolve e dunque diventiamo, senza rendercene conto, testimoni della storia. Bando alla migliore delle interpretazioni possibili per superare il limite dell’offesa, c’è da dire che le parolacce, le volgarità, il turpiloquio hanno talvolta risvolti giuridici di notevole gravità fino a portare in galera se pronunciate contro un giudice durante una seduta o contro il Presidente della Repubblica. Esprimersi in modo spregiativo, insultare una persona, rimane sempre una cattiva azione che non lascia spazio a scusanti di qualsiasi genere. In questi casi non esistono licenze poetiche, non esistono contesti comici, né riquadri spettacolari. Esiste solo la volgarità e la sua banalità non può trovare spazio nell’educazione proprio perché insopportabile.
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