La scuola restituita alla politica

«Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani». Una frase forte di cui vale la pena sviscerarla fino al midollo pur di capire quanto attuale sia per la scuola di oggi. Intanto diciamo subito che a pronunciare questa frase rivolta ai suoi studenti è stato don Lorenzo Milani fondatore della scuola di Barbiana, un paesino sulle alture del Mugello in Toscana. Fu mandato in quel paesino sperduto quasi per punizione e lì invece nacque la scuola moderna. Una scuola dove molta cura veniva posta allo studio delle lingue (si studiava persino l’arabo), dove si preparavano piccoli viaggi di lavoro, quelli che noi oggi chiamiamo «stage di alternanza scuola-lavoro», dove trovavano spazio le attività culturali come il teatro, la musicache avevano lo scopo principale di abbattere la timidezza, bestia nera di parecchi alunni. Una scuola col tempo prolungato, anzi molto prolungato dal momento che si articolava per tutta la giornata e si protraeva per tutto l’anno. A Barbiana il tempo scuola non aveva una sua particolare dimensione. E né poteva essere diversamente. Perché citare Don Milani? E perché ricordare la scuola di Barbiana? Semplicemente perché leggendo una recente intervista rilasciata in tempi non sospetti dalla nuova Ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, credo di non esagerare nel vedere, dalle risposte rilasciate, il rafforzamento dell’idea di ripensare alla scuola come luogo di formazione del futuro cittadino. Mi par di capire che la nuova Ministra vuole innanzitutto una scuola più attenta al merito visto però non come risultato finale, ma come percorso scolastico da garantire a tutti e a ciascuno; una scuola in grado di offrire più opportunità a chi mostra più bisogno; una scuola che viva in pieno una interazione sociale ricca, operativa e costruttiva, quindi aperta alle attività sociali e ricreative. E’ un sistema che crea le basi per meglio preparare l’uomo del domani. Sono tante le analogie con la realtà scolastica di don Milani. Ora come allora il mondo sta cambiando. Se allora una delle preoccupazioni del Don era quella di insegnare ai figli dei montanari del Mugello a saper fronteggiare il cammino migratorio verso le fabbriche delle grandi città del nord, di insegnare a meglio capire i cambiamenti sociali in atto, di insegnare l’utilizzo dei nuovi mezzi tecnologici dell’epoca come la macchina da scrivere, anche oggi imperversano nuove e diverse preoccupazioni. Anche oggi dobbiamo insegnare ai nostri giovani su come impostare il cammino lungo nuove direttive, come ben utilizzare i nuovi linguaggi, come vivere il rapporto con la tecnologia digitale. La globalizzazione impone una differente impostazione di vita, talchè una nuova cultura spinge i giovani a cercare frontiere più vaste o nuove dimensioni dagli spazi più infiniti, dalle distanze più ragguardevoli. I nuovi bisogni determinano nuovi approcci che talvolta finiscono con l’esaltare un malefico individualismo. I nostri giovani si trovano ad affrontare una società per certi versi più a portata di mano, più mordi e fuggi, più complessa, più immorale, più antiumana. La teoria del Leviatano di Hobbes sembra accompagnarci, senza speranza, in un asfissiante processo involutivo in ambito culturale, etico e sociale. Un diffuso infantilismo sembra seminare senza ostacoli tra i giovani edonismo e narcisismo, presentandoli come merce da esporre alle voglie del mercato della domanda e dell’offerta. E la scuola? Come si pone la scuola in tutto questo bailame? La scuola è l’unica agenzia educativa in grado di offrire una concreta opportunità di educazione, cultura, e istruzione almeno fino a quando non sprofonderà in una preoccupante crisi così come è già successo con le altre agenzie educative (la famiglia, gli oratori). E come Don Milani offrì nuove possibilità a chi si presentava a scuola con le toppe sul sedere (sinonimo di quello usato dal Don), così anche noi oggi dobbiamo offrire nuove possibilità a chi pur non avendo le toppe sul sedere, rischia di cadere nell’ignoranza più assurda a causa di una società più selettiva e più esigente.I nostri ragazzi hanno di sicuro la possibilità di inseguire e seguire le nuove proposte tecnologiche, ma se tutto questo non è accompagnato dall’educazione a un loro proficuo e corretto utilizzo, se tutto questo non è vissuto come una nuova opportunità sociale, ben presto questi giovani si troveranno a fare i conti con le ferite interiori che possono incancrenirsi fino a rendere la vita un calvario. Un mondo diverso si affianca ai nostri ragazzi con sempre più determinazione, con regole sempre più feree, un mondo che rischia di spazzarli via se la scuola non cambia sistema formativo. E per cambiare la scuola occorre cambiare la cultura che di essa si ha. A cominciare dalla classe politica che non ha più chance per smentire se stessa. Alla scuola, se non si vogliono tradire le proprie convinzioni, bisogna dedicare più risorse a costo di toglierle ai partiti. Tanto abbiamo visto cosa fanno i partiti dei finanziamenti loro assegnati. D’altro canto la scuola non è mai stata un contenitore del niente, non ha mai issato la bandiera bianca dell’ignoranza, né mai ha deciso di battere in ritirata. Le nuove regole sociali sono oggi più spietate e questo i ragazzi lo devono sapere. Continuare a tagliare sulla scuola significa continuare a rafforzare la convinzione che la scuola possa rispondere in maniera più significativa alle esigenze di un parcheggio dove gli alunni si muovono in un tradizionale anonimato, piuttosto che a un’occasione di crescita sociale in un’aula vista come una ricca opportunità di ricerca e relazioni. E’ vero che a volte si possono ottenere molti risultati anche con poche risorse, ma è anche vero che le risorse qualificano mezzi, metodi e strumenti laddove si rivelano, altresì, come necessità per ridare efficacia all’azione didattica. Una voce restituita alla speranza è quella che arriva dal nuovo premier Enrico Letta il giorno della fiducia in Parlamento dove non ha trascurato di dedicare poche ma significative parole: «Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza». Ben detto. E ora i fatti.

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