La colpa è sempre della scuola

Succede a volte che certe situazioni nascono e crescono nell’ambito di una cultura prevalente che vede la scuola quasi sempre soccombere a un certo modo di pensare e che, in quanto collettivo, viene alla fine riconosciuto. C’è un’aria strana che aleggia attorno alla scuola al punto da ritenere giustificata qualsiasi iniziativa che, sia pure chiaramente fuori del normale, si alimenta, tuttavia, di un conformismo benpensante tale da riuscire difficile a *preside dell’Istituto chiunque dimostrare il contrario. E’ il caso, ad esempio, di quanto accaduto al Liceo Artistico «Munari» di Vittorio Veneto dove la mia collega si è vista costretta a rimandare a casa una quarantina di studenti che si sono presentati a scuola in maschera. Tutto normale per loro. Un concetto di normalità che trova la ragion d’essere in due fondamentali variabili. La prima perché si è in clima carnascialesco, la seconda perché si è in un istituto artistico. Come se fossero due variabili da salvacondotto al punto tale da giustificare qualsiasi azione che possa rientrare in una certa razionalità. Ora si può capire l’intemperanza degli studenti, ma che questa venga condivisa e fatta propria anche da adulti, allora siamo in alto mare. La preside, come c’era da aspettarsi, è stata attaccata da studenti e genitori. Il perché è anche immaginabile.

Troppo intransigente, severa nelle decisioni prese, esageratamente esigente proprio in un momento storico in cui la scuola è più che mai aperta alla realtà, al mondo secondo canoni nuovi che le consentono di svecchiarsi e di essere più vicina alle nuove aspirazioni (salvo poi snaturarla). Le decisioni prese dalla mia collega sono state, sostanzialmente, ritenute oscurantiste, non progressiste e quindi in aperto contrasto con quelle che sono le nuove leggi di governo scolastico che, stando a una certa teoria modernista, dovrebbero essere animate da principi sociologici più che formativi.

In altre parole la scuola, per certe convinzioni, deve essere aperta a situazioni che non devono essere più considerate a latere del progetto formativo, ma essere parte integrante, se non prevalente, del processo stesso. Cerco di chiarire ulteriormente il passaggio. Quando alla scuola si chiede di essere più vicina alle esigenze social-popolari sempre pronte a imporre ritmi e appetiti consumistici, si rischia di portarla fuori dal suo alveo originale perché si rischia di privarla della sua funzione prima, ovvero essere essenzialmente un luogo di studio. Il guaio è che questa teoria trova, nella maggiorparte dei casi, giustificazione tra gli stessi genitori che, senza volerlo, finiscono per essere favorevoli a una scuola dispersiva, polverizzata da una miriade di compiti e accessori che poco o nulla hanno a che fare con lo studio.

Vivere un’esperienza carnascialesca in una scuola superiore, sia pure in sintonia con il momento sociale e coinvolgente, per di più volutamente organizzata e clandestinamente portata a termine durante le lezioni, non può trovare giustificazione alcuna. Men che meno può trovare giustificazione il fatto che siamo in un istituto artistico quasi a tutela del senso creativo messo in campo.

Ci sono regole e principi che non posso essere superati in nome dell’esigenza sociale e collettiva, né tanto meno in nome di un particolare indirizzo di studio. Cosicché ogni azione di richiamo al rispetto delle regole, viene vissuta come azione di contrasto e pertanto da non condividere e da ostacolare in qualsiasi modo. Stessa sorte è toccata al mio collega dell’Istituto Tecnico Commerciale «Einaudi» di Bassano del Grappa dove una coppia di ragazzi sono stati sospesi per aver fatto sesso nei bagni della scuola. In questo caso è il discrimine ad aver innescato la contestazione. Un giorno di sospensione a lui, quattro giorni alla ragazza.

Perché questa differenza? Il preside, considerata la giovane età dei due, evita commenti con la stampa, ma non con le famiglie dei due giovani adolescenti con le quali è iniziato un approfondimento educativo. Ma la rissa mediatica è oramai scatenata e anche in questo caso la colpa è della scuola e del suo preside in particolare che ha lasciato i ragazzi soli nell’affrontare il problema della sessualità. Anche presso la scuola media «Cavour» di Marcianise, nel casertano, si registra un fatto spiacevole. Un alunno preso, pare, da una delusione amorosa, ha tentato il suicidio gettandosi dalla balconata interna, cadendo giù nell’atrio. Per fortuna, immediatamente soccorso, non ci sono state conseguenze letali. Anche in questo caso la colpa è della scuola che non ha saputo valutare comportamenti anomali di adolescenti incapaci di dominare emozioni e sentimenti soprattutto con l’altro sesso.

La colpa, come sempre, è dei presidi insensibili ai problemi adolescenziali, sordi ai richiami sociali, indifferenti alle varie educazioni, ma anche degli insegnanti responsabili del basso rendimento nello studio dei ragazzi, colpevoli di inseguire i programmi senza curarsi della crescita dei loro alunni. E’ come dire che capire perché un ragazzo si rattrista per una delusione amorosa è, per alcuni, più importante che insegnare Leopardi o Manzoni.

Ora capisco l’importanza di stare vicino a un alunno, ma è importante che questo alunno entri in possesso di conoscenze culturali che lo accompagneranno per sempre nella vita. Si continua a dire che la colpa è della scuola in generale preoccupata più a mettere in atto meccanismi di tutela contro i ricorsi dei genitori, che non a cercare le motivazioni di un cambiamento.

La colpa è della scuola ritenuta incapace di dare adeguate risposte all’abbandono degli studi da parte di tanti studenti, accusata di non essere più in grado di trasmettere l’amore per il sapere, sospettata di rivelarsi debole nel comprendere nuovi linguaggi perché impreparata.

I docenti, infatti, devono fare i conti con ragazzi che parlano per concetti sintetizzati, aggrappati come sono a una minima esplicitazione del concetto (per analogia il Bignami è un’enciclopedia), che scrivono con scarsa pianificazione sintattica.

Nel nuovo linguaggio prevalgono slag, sigle e metafore. Un gergo per pochi intimi dove emo, truzzo e scialla sono già di per sé un tema. Tutto rientra nella nuova struttura comunicativa. Ma la colpa è sempre e comunque della scuola che non sa insegnare a scrivere. Sarà poi vero?

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