Il razzismo, l’emergenza in campo

Al di là del burrascoso “finale di partita” con cui Fabio Capello ha detto addio alla nazionale inglese, il fenomeno razzismo nel calcio non è affatto da sottovalutare: se n’è accorto anche il premier britannico David Cameron che ha deciso di convocare i responsabili della Lega calcio britannica e della Premier League per un summit ad alto livello su questa gravissima emergenza all’interno del calcio inglese. Un’allerta messa ancora più a nudo dalla stretta di mano che l’uruguaiano del Liverpool Suarez ha negato al giocatore del Manchester United Evrà, dopo che in ottobre l’aveva pesantemente insultato in termini razzistici: poco conta che poi tardivamente (e quanto di sua sponte?) abbia chiesto scusa.

Il problema nel Regno Unito è esploso in tutta la sua drammaticità, ma a differenza dell’Italia, dove anche davanti a curve ululanti insulti terribili si fa spesso finta di non sentire, le conseguenze oltremanica rischiano di diventare serie per i trasgressori. La vicenda Capello è altrettanto delicata e non può essere liquidata con il solo “misunderstanding” con cui ne ha parlato il tecnico di Pieris. Se, da un lato, ha ragione lui nella forma rivendicando il diritto di decidere collegialmente (commissario tecnico e Federazione inglese) una grave misura disciplinare, è altrettanto vero che nella sostanza la frase incriminata e pronunciata dal capitano della nazionale Terry nei confronti di Anton Ferdinand sarebbe sicuramente passibile almeno di una sospensione della fascia da capitano, poi effettivamente sancita. Si può capire un ct che difende il suo capitano, ma di fronte a simili comportamenti le giustificazioni valgono poco. E diventano anzi pericolosi ostacoli a una presa di distanze, netta, assoluta, verso simili bestialità.

La polemica oltremanica da noi è rimbalzata in maniera strana: come se, invece di guardare la luna, ci limitassimo a mirare al dito che l’ha indicata. Il problema non è tanto o solo Capello che lascia la nazionale inglese per una questione di principio o meno: è trarre spunto perché anche da noi certe barbarie non si ripetano. Dobbiamo sempre partire da un concetto basilare: lo sport è ancora educativo, può rappresentare ancora un esempio per le nuove generazioni? Se non è più così, se lo derubrichiamo a semplice spettacolo, allora può valere tutto, persino l’inseguimento del puro profitto. Altrimenti non possiamo, non dobbiamo chiamarci fuori. Nessuno di noi. Sembrano messaggi lontani e invece si sentono ogni domenica. E anche di lunedì, come il 13 febbraio a Siena, quando dalla curva dei tifosi bianconeri, prima ancora della partita, era già partito un coro di discriminazione nei confronti del settore occupato dai romanisti: “Quella curva là, sembra l’Africa”. Cori irriguardosi anche da parte degli ultrà juventini a San Siro contro un giocatore del Milan, ma l’elenco potrebbe essere lungo: la deriva deve essere fermata e se il prezzo è anche quello di togliere la fascia di capitano della nazionale a un giocatore, ben venga.

Leo Gabbi

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