Il progresso si allontana dal lavoro

C’è qualcosa di antico, e fors’anche di sbagliato, nel metodo con cui si sta rivoluzionando il mondo delle regole che governano il lavoro in Italia. L’esecutivo sta “trattando con le parti sociali”, intendendo con queste soprattutto la triplice sindacale Cgil-Cisl-Uil, e Confindustria per la parte datoriale. Qui sta il vulnus.Le tre sigle sindacali sono senza dubbio le più rappresentative in Italia. Ma altrettanto certamente rappresentano solo una parte, anzi una piccola parte del mondo del lavoro italiano. Stante il fatto che oltre la metà degli iscritti è pensionata, gli “attivi” della triplice sono appena qualche milione di lavoratori. Difficile dire quanti milioni, vista la difficoltà di avere numeri precisi sul tesseramento. Ma stiamo dentro le dita di una mano.Se poi consideriamo che buona parte di questi “attivi” viene dal pubblico impiego, che ha regole di accesso e di uscita del tutto particolari, sorge il dubbio di quanto Cgil, Cisl e Uil siano rappresentativi delle decine di milioni di lavoratori italiani. Tanto per dire, la riforma riguarderà soprattutto quella grande fetta di precarietà – o flessibilità – che ha scarsissima rappresentanza dentro il sindacato, e che spesso vede proprio il sindacato come “difensore degli inclusi”. E il commercio? E l’agricoltura? E quell’artigianato che è il motore economico di molte regioni italiane? Sì, ci sono anche loro; solo che la loro opinione pesa un centesimo di quella dei leader della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil che era centrale nel 1969, ma che ora è centrale solo come peso ideologico.D’altra parte, Confindustria. Cioè l’associazione delle medio-grandi imprese, non di tutte; con molte aziende riconducibili allo Stato (Eni, Enel, Ferrovie...) e senza Fiat, per dire. Ma non è questo il punto: la vera questione è che il tessuto economico italiano è fatto dalle medio-piccole imprese, anche se poi l’intero dibattito italiano gira attorno a qualche stabilimento della Fiat o a una dichiarazione di Emma Marcegaglia. E vogliamo parlare del “popolo delle partite Iva”? Vogliamo finalmente prendere atto che da almeno due decenni la grande fabbrica “verticale” si è destrutturata, spalmandosi orizzontalmente su una produzione che si integra con un nugolo di fornitori esterni? Che i grandi stabilimenti sono stati chiusi o ridotti, e la forza lavoro si è frastagliata in dipendenti interni, in lavoratori di aziende collegate (magari con sede all’estero), in consulenti vari, in figure più o meno precarie?Si dirà: fare accordi con tanti interlocutori diversi diventa impossibile. Vero. Cosa c’è di più ridicolo di quelle tavolate tra governo e “parti sociali” con decine di personaggi coinvolti, come in un matrimonio in cui si invitano pure parenti lontanissimi e sconosciuti, pur di non rischiare qualche brutta figura formale...Ma allora si cambi completamente la musica, si smettano questi giri di valzer di sempre più polverosa memoria. Il governo avanzi una sua proposta articolata e completa. Dia il tempo a tutti gli attori interessati di fare le loro controdeduzioni: ci sono associazioni di categoria, lobbisti accreditati, giornali e opinionisti vari alla bisogna. Faccia sintesi e porti il pacchetto all’attenzione del Parlamento, che rimane sovrano nella decisione e di per se stesso portatore di svariati interessi.Altrimenti mettiamo un tema decisivo per il futuro del Paese nelle mani di qualche personalismo, di pochi interessi che fingono di rappresentare tutti gli altri. È così che ci ritroviamo – unico Paese occidentale – con una grande precarietà sottopagata, laddove dovrebbe esserci un’intelligente flessibilità maggiormente retribuita. È così che ci ritroviamo a discutere di una norma di legge (il celebre art. 18 dello Statuto dei lavoratori) creata nella seconda metà degli anni Sessanta e approvata nel 1970: 42 anni fa. Riflettete su quanto il mondo – anche lavorativo – sia cambiato in questi quattro decenni (informatica, internet, globalizzazione totale, moneta unica...) e capirete perché in Italia la parola “progresso” si stia sempre di più allontanando dall’un tempo gemello termine “lavoro”.

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