Il nostro sangue disperso

Il Lodigiano non è grande, conta però dieci istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado, dislocate in plessi diversi e articolate in numerosi indirizzi: negli anni, il docente chiamato nella provincia quale commissario o presidente per gli esami di stato ha dunque la possibilità di trascorrere la seconda metà di giugno e la prima di luglio (che il personale della scuola goda di tre mesi di vacanza è infatti diceria malevola e infondata) incontrando corsi di studio e colleghi vari e diversi. In questa sessione 2013 sono chiamata a presiedere la commissione istituita presso l’Istituto professionale “Giulio Ambrosoli” di Codogno. Nel compulsare la composizione del gruppo di lavoro, le discipline di cui sono titolari colleghe e colleghi, le materie oggetto della seconda prova scritta, provo apprensione (poca) e curiosità (molta): non so nulla di macchine a fluido né di tecnologie industriali chimiche; quanto a elettronica e biotecnologie, nel mio ruolo di docente di materie letterarie in un liceo delle scienze sociali, riesco appena a intuire di che si tratta. Meglio così: anche quest’anno mi terrò in esercizio cerebrale con nuovi apprendimenti. Mi trovo infatti a esaminare giovani che hanno scelto di frequentare un corso di meccanico e altri che hanno optato per un corso di tecnico chimico-biologico; tutti conseguiranno un diploma professionalizzante, finalizzato all’inserimento nel mondo del lavoro, pur non escludendo la possibilità di proseguire gli studi. Poche le ragazze (presenti nel solo indirizzo chimico-biologico), numerosi gli stranieri, di immigrazione consolidata o recente, di ogni nazionalità. Studenti aperti e onesti (a dispetto dei detrattori della gioventù), qualcuno più studioso, qualcuno meno, tutti però portatori di una storia personale improntata a dignità, talvolta a riscatto; si impegnano per dare il meglio di sé, nonostante l’impianto dell’esame, basato sulle conoscenze, ne penalizzi le capacità manuali e pratiche, valorizzate invece nelle esperienze di scuola-lavoro compiute durante l’anno in aziende del territorio.I giorni degli esami trascorrono quieti, secondo un copione consolidato: riunioni, svolgimento delle prove, correzioni (in giornate lavorative anche di dodici ore: che il personale della scuola lavori la mattina soltanto è altra diceria infondata e malevola), colloqui, scrutini conclusivi. I colloqui sono aperti da esperienze di ricerca o progetto che mi portano ad apprendere la tecnica di produzione di una ruota dentata o le caratteristiche di un motore Stirling; si chiudono, invece, con la domanda di rito, che più o meno scherzosamente rivolgo a candidate e candidati: «E dopo? che vuoi fare da grande?». Con i colleghi interni, che meglio li conoscono, tento di incoraggiare i più meritevoli alla prosecuzione degli studi. Quasi tutti però, con un sorriso incerto, affermano di voler cercare “un lavoro”, anzi “un lavoro qualunque”, quello che troveranno. E – questo mi accade per la prima volta– ben cinque su ventiquattro (oltre il 20%) affermano di voler cercare lavoro all’estero. Ma non a caso: hanno un progetto preciso, già delineato, forse preparato da tempo. «Mio fratello ha aperto un bar in una località turistica vicino Barcellona – Fabio, sorriso cordiale, è risultato il migliore del suo corso – lo raggiungerò, lavorerò con lui». Luca, invece – bravissimo nella scrittura -, già vola oltreoceano: «Ho zii e cugini a New York, nello stato del New Jersey – (e chi, di noi italiani, non ha uno zio emigrato nelle Americhe?) – chissà che gli Stati Uniti non mi riservino qualcosa di buono…». La destinazione dei suoi compagni Luca e Ignazio sarà Londra: «Ho già degli amici che lavorano là – dice il primo, e il secondo, poi, conferma – non è difficile trovare una prima occupazione, quella che è, poi, piano piano, migliorare». Esprime una doppia appartenenza, a partire dal nome, Luca Gurdit: «Tornare in India? No, io sono nato in Italia! Andrò a Londra: i miei genitori sono qui, ma mio fratello e mia sorella più grandi sono già là e ci lavorano». Provo un senso di ingiustizia profondo: quale può essere il futuro di un paese che perde così le sue risorse migliori? Giovani aperti e onesti, che hanno portato a termine con dignità il percorso di studi, che potrebbero essere tecnici o artigiani capaci, lasciano l’Italia in cerca di futuro, vanno a fare la fortuna di altre nazioni… Come non ammirarli? Nell’estate leggo un bel libro di Carmine Abate, Il mosaico del tempo grande, storia della comunità albëreshë esule in Calabria a seguito dell’occupazione turco-ottomana dell’Albania, a partire dal tardo Quattrocento. Vi trovo un’espressione che non conoscevo e che mi affascina; i parlanti albanesi la pronunciano incontrandosi: «Gjaku ynë i shprishur!». Significa: «Il nostro sangue disperso!».

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