I docenti e il mal di scuola

Leggo un trafiletto in una delle pagine interne di un noto quotidiano e credo di aver individuato l’occasione che cercavo per trattare di un argomento: il mal di scuola. Questa volta, però, ci troviamo di fronte non a studenti che mostrano gravi disagi o a ragazzi svogliati, demotivati a tal punto da andare incontro a un sicuro fallimento scolastico. Niente di tutto questo. Il problema riguarda gli insegnanti. La notizia è riportata in piccolo, ma non può passare inosservata. Scopro allora che Anna Di Gennaro, ex insegnante ora responsabile di uno sportello di ascolto per docenti recentemente aperto a Milano presso l’associazione docenti Diesse Lombardia, lo dice senza tanti giri di parole: «Fare l’insegnante è un mestiere usurante». Ma se da noi si affronta il problema con uno sportello d’ascolto, in Francia vanno giù più decisi. Pur di essere di aiuto ai docenti un po’ «sui generis», che ti fanno i nostri cugini transalpini? Aprono un ospedale psichiatrico per insegnanti depressi. Allora due sono le cose. O i francesi vivono un problema più serio di quanto lo si pensi, o non hanno mai avuto un politico come il nostro Franco Basaglia. Da noi più che di ospedali psichiatrici si punta al riconoscimento di un anno sabbatico ogni dieci anni di servizio. E’ un modo come un altro per tirare il fiato, per riprendere vigore e ritornare in cattedra più freschi e più motivati di quanto la si è lasciata. Attualmente con interruzione sia giuridica che economica. Ma un domani chissà. Una domanda a questo punto mi sembra legittima. Ma è proprio così pesante la situazione nel mondo scolastico tanto da mandare i docenti alla ricerca di sportelli d’ascolto che tradizionalmente sono riservati agli studenti? Evidentemente sì. Una situazione che comunque contrasta con la voglia di tanti giovani laureati desiderosi di entrare nelle graduatorie per avviarsi alla carriera docente. Dunque quello dell’insegnante rimane, nonostante tutto, un lavoro che affascina. Si dice che aumenta sempre più il numero di docenti affetto dalla sindrome di «Burnout», ovvero da stress da insegnamento. Chi o cosa provoca un eccessivo stress da lavoro per tanti docenti che dopo anni di onorata carriera rischiano di trovarsi a dover fare i conti con sportelli d’ascolto o, come accade in Francia, con ospedali psichiatrici, è ancora tutto da chiarire. Molto chiaro, invece, è ciò che capitava al buon Socrate che da insegnante affrontava lo stress, andando in trance. E’ Platone a raccontarcelo: «Assorto in qualche pensiero stette in piedi nello stesso posto a meditare sin dalle prime ore del mattino. Non si muoveva. Era già mezzogiorno. Allo spuntar dell’alba del giorno, fece la sua preghiera e se ne andò». Uno così in Francia lo avrebbero chiuso a chiave in qualche scantinato. E forse sarebbe stato meglio, visto la fine che gli fecero fare gli ateniesi. Certo che fare l’insegnante oggi è dura. Il docente di oggi deve fare i conti con una serie di situazioni inimmaginabili fino a qualche anno addietro. Problemi diversi hanno determinato il sorgere di particolari condizioni favorevoli al corto circuito intellettivo di molti insegnanti. Ragazzi spavaldi, genitori temerari, colleghi rancorosi, tensioni professionali, problemi famigliari, sono alla base di un preoccupante livello di disagio che difficilmente si riesce a mascherare. Se poi vogliamo completare il quadro, allora dobbiamo ricordare anche quella sorta di malinconia alimentata da un persistente stato di precarietà, dalla contrarietà di vedersi valutati da genitori e alunni, da un desolante riconoscimento sociale che incupisce il docente più ottimista o da una preoccupante crescita esponenziale delle innovazioni tecnologiche che impietosamente finisce col creare un imbarazzante divario tra docenti e discenti. Che dire? La scuola è cambiata nel modo di presentarsi, nei sistemi metodologici, nell’esposizione mediatica, ma è cambiato anche il modo di viverla, di amarla, di sentirla. Non sono pochi i docenti che la sentono distante, noiosa, avversa alla propria professionalità, pericolosa per le tante trappole che tra le sue pareti si nascondono, impertinente, offensiva, ingestibile, chiassosa, non più formativa. Una scuola che dà poco non può che ricevere poco. Una scuola così può essere mai desiderata? Può essere desiderata una scuola rancorosa che fa fatica a insegnare a stare al mondo? Una scuola alimentata da continue tensioni, che fa fatica a trasmettere la voglia di varcare i suoi cancelli? Una scuola eccessivamente esposta, sbattuta sempre sui giornali per le tante stupidaggini che si raccontano sul suo conto? Certamente no. C’è da rimanere amareggiati per tutto questo. Quando finirà sta nottata! Tuttavia una semplice domanda è d’obbligo. Come recuperare il senso pedagogico? Come restituire una credibilità a un sistema che non appaga più e una dignità ai tanti docenti che non convincono più? Tanto per incominciare credo sia opportuno, per prima cosa, puntare su una rinnovata qualificazione della classe docente. Un docente che arriva a scuola senza trasmettere passione per il proprio lavoro, è un docente che rischia di sbagliare impostazione prima ancora di incominciare la giornata. Un docente che arriva a scuola e si siede in cattedra, chiedendo silenzio per meglio concentrarsi nella lettura del giornale, è un docente che non sa cogliere le sensazioni che traspaiano dagli sguardi e dai pensieri dei ragazzi. Un docente che trasmette frettolosamente il proprio bagaglio culturale senza curarsi delle diversità presenti in classe, è un docente che non è dotato di sensibilità etica. Come intervenire? Semplicemente riconoscendo una vera autonomia scolastica. E allora si avrà che una scuola potrà scegliersi i suoi insegnanti, potrà impostare un proprio percorso formativo nell’unità degli indirizzi, potrà ricorrere a una propria scelta di governance, potrà puntare su specifici percorsi per inseguire specifici obiettivi. Una scuola siffatta vivrebbe un clima diverso e probabilmente con risultati più vicini alle aspirazioni di chi insegna, di chi impara e di chi la osserva. Utopia? Sì, ma da guardare come un orizzonte animato da speranza.

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