Angela Merkel “è destinata a entrare nella lista dei grandi cancellieri?”. Quesito stimolante, formulato dal quotidiano “La Vanguardia” alla vigilia del Consiglio europeo del 19-20 dicembre e all’indomani dell’incoronazione della “ragazza venuta dall’Est” per il terzo mandato alla guida del governo di Berlino. La testata spagnola abbozza una risposta: “Tutto dipenderà da ciò che accadrà in Europa e in questa Unione”. L’erede di Adenauer e Kohl “è entrata in carica nel 2005, quando l’Ue rispondeva ancora all’appeal narcisistico che associava il suo nome al benessere e alla pace”. Ma dopo anni e anni di crisi, la situazione è oggettivamente cambiata. Quando fu eletta cancelliera per la prima volta, la Merkel poteva fare i conti con un’Europa ben diversa: aveva appena aperto le frontiere a Est, era stato da poco battezzato l’euro, si parlava ancora di processo costituente. E, soprattutto, le economie del continente erano in marcia. Oggi diverse di quelle prospettive (e taluni “miti” correlati) si sono dissolte, sovrastate dalle preoccupazioni legate alla disoccupazione, alla crisi economica e finanziaria, ai risorti protezionismi e nazionalismi. Le bandiere Ue sventolano a Kiev, ma non a Parigi, Atene, Roma o Varsavia; populisti ed euroscettici si preparano a fare il pieno di voti alle elezioni dell’Europarlamento, nel maggio 2014. Sulla scena politica sembrano fra l’altro mancare leader di caratura continentale: i vari Cameron, Hollande, Letta, Tusk, Rajoy, devono badare ai problemi interni: l’integrazione europea passa in secondo piano.In questa situazione Angela Merkel (anche in ragione di un forte mandato elettorale con il quale i tedeschi le hanno consegnato le chiavi del Paese) non può che svettare. Tanto da presentarsi al Consiglio europeo con la precisa coscienza di avere in pugno la situazione: l’unione bancaria, la stabilità della moneta unica e quella dei bilanci pubblici, il ruolo della Bce, le eventuali riforme dei trattati, i rapporti con l’Ucraina e con i russi, persino le politiche per le energie rinnovabili, tutto deve passare al vaglio di Berlino. Pena un “nein, danke” che bloccherebbe il percorso comunitario. È soprattutto la discreta situazione economica tedesca (forti esportazioni, investimenti in aumento, disoccupazione quasi annullata, benché i consumi interni siano mortificati da livelli salariali modesti) che consegna alla Merkel una marcia in più.Paradossalmente la Commissione europea non più di un mese fa ha intimato alla Germania di mettere un freno alle partite correnti e alle esportazioni verso i Paesi terzi, privilegiando semmai un’azione di stimolo per il mercato interno, indicando inoltre la necessità di adeguare gli stipendi alla produttività. Musica per le orecchie degli alleati Spd della cancelliera: infatti nelle 185 pagine di programma governativo figura la fissazione di un minimo salariale di 8,50 euro l’ora: un livello che in altri Stati membri non ci si sogna nemmeno. Insomma, la Germania corre troppo, e qualcuno spera che la “locomotiva” tiri il freno a mano. Ora spetta proprio alla Merkel dimostrare di essere una degna erede dei suoi predecessori, sia di quelli democristiani che di quelli socialdemocratici. Non sarà una malcelata prepotenza sulla scena europea a portare vantaggi alla Germania, e tanto meno all’Ue. Diversamente un sano equilibrio tra la promozione degli interessi interni e la costruzione di quelli europei - che, oggettivamente, dipendono ancora moltissimo da Berlino - segnerebbe la definitiva collocazione di Angie nell’Olimpo della “casa comune”.
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