Europa, incognite del dopo voto

La crisi vota contro Sarkozy, aveva sostenuto il quotidiano francese “Le Monde” dopo il primo turno delle presidenziali francesi. E così anche al ballottaggio del 6 maggio la recessione economica, con le sue ricadute su lavoratori e famiglie, è uno degli elementi determinanti – assieme a una serie di errori politici da lui stesso ammessi – per la sconfitta di Nicolas Sarkozy. Il presidente uscente, esponente del neogollismo, ha ceduto il passo, pur con uno scarto elettorale lieve, al socialista François Hollande, autonominatosi “monsieur normal”, per sottolineare la differenza di stile rispetto al suo avversario, sovraesposto mediaticamente e prodigo di promesse. Parigi adesso è attesa alla prova europea: i due sfidanti all’Eliseo avevano lanciato, ciascuno a suo modo, moniti e imperativi all’Europa, sui temi del rigore e della crescita, sul controllo delle migrazioni, sulla politica estera e in altri settori, ritenendo di poter orientare a proprio piacimento una Unione di 27 Stati. Ora, spenti i riflettori delle elezioni, il vincitore Hollande dovrà semplicemente riconoscere di essere uno dei partner comunitari, benché un partner di primo piano. E i segnali che già gli giungono dalla Merkel e da altri leader europei sono al contempo d’incoraggiamento e di “moderazione”. In Europa si tratta, non si comanda. Il voto francese non è peraltro né il primo, e forse non sarà l’ultimo, sul cui esito ha pesato la crisi e in questa chiave va posto sotto la lente d’ingrandimento europea. Ci si può domandare, infatti, quanto influirà sulla politica della cancelliera tedesca Angela Merkel, la nuova batosta elettorale subita nel land Schleswigh-Holstein, che precede di una sola settimana un altro test rilevante, nel Nord Reno Westfalia. Lo stesso si può dire delle elezioni amministrative nel Regno Unito e in Italia. A maggior ragione, interrogativi profondi emergono dai seggi greci.Ad Atene i due partiti alternatisi al governo negli ultimi decenni, Nuova democrazia (destra) e Pasok (socialisti), a diverso titolo responsabili del gigantesco debito pubblico greco e partner dell’Ue nel tentativo di porre un argine al default del Paese, escono fortemente ridimensionati dal voto popolare, che ha invece dato ascolto alle parole d’ordine lanciate dalle estreme, quella di sinistra e quella nazionalista e xenofoba. Secondo il complesso meccanismo di assegnazione dei posti in Parlamento, forse si riuscirà a costituire una maggioranza “di salvezza nazionale”, che dovrebbe impegnarsi a tener fede agli impegni assunti con la Troika (Ue, Bce, Fmi) in cambio di copiosi aiuti finanziari. Diversamente la Grecia potrebbe cadere in preda all’isolamento e all’instabilità politica, che avrebbero ancor più pesanti conseguenze sull’economia e sulle famiglie, e che potrebbe portare Atene non solo fuori dall’Eurozona, ma addirittura fuori dall’Unione europea. Una prospettiva, questa, che neppure il più indignato dei cittadini greci può augurarsi per sé e per la propria nazione.Si attendono, infine, i risultati delle elezioni presidenziali e legislative serbe. Lo scontro tra l’europeista Boris Tadic, presidente uscente alla guida del Partito democratico, e Tomislav Nikolic, leader del Partito del progresso, dovrebbe risolversi con un ballottaggio (20 maggio). Belgrado si sta misurando su diversi fronti: il consolidamento della democrazia, il nodo dell’indipendenza del Kosovo, la situazione economica e sociale interna, il ruolo di Paese-guida dell’intera regione balcanica, la prospettiva europea. Bruxelles osserva con un misto di speranza e preoccupazione. I Balcani fanno parte della storia, della cultura, dell’identità continentale: l’Ue ha più volte ribadito la “prospettiva europea” dell’area. Ma dagli stessi Balcani occorrono segnali d’interesse e scelte politiche coerenti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA