«L’amico mio, e non de la ventura...» - ovvero l’amico che mi è caro, l’amico autentico e non mutevole secondo fortuna - «ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, chè vòlt’è per paura» - è solo, in un luogo desolato e arido, né sa proseguire il cammino, tanta è la paura che prova. Così parla a Virgilio l’anima celeste di Beatrice, nel canto II dell’Inferno, affinché l’antico poeta porti soccorso a Dante, incapace di trovare salvezza dalla selva oscura, dalla disperazione, dalla cupa prigione del peccato.Quante sono le donne – non donne di paradiso, ma in carne e sangue - che senza parola poetica, attraverso una quotidianità faticosa, portano soccorso agli uomini cari ristretti in carcere? Tante, tantissime. Le persone detenute negli istituti di pena italiani sono 62.536 (a fronte di una capienza “regolamentare” di 47.709 posti): 2.694 donne e 59.842 uomini (fonte: DAP al 31.12.2013). Sono dunque, queste donne, almeno 59.842, perché alle spalle di ogni internato vi è una donna, o forse anche due o tre. Madri, sorelle, spose, figlie, compagne... La prova è semplice: basta recarsi all’ufficio colloqui di una qualunque casa di reclusione in una mattina qualsiasi. L’ufficio – un corridoio gelido – è affollato di donne, ben più numerose rispetto agli uomini, davvero residuali (chissà in un carcere femminile... le donne sono appena il 4,3% delle persone detenute, e in passato la percentuale è stata anche inferiore).Donne che compilano richieste di permesso per porsi poi in paziente attesa, se giunte senza prenotazione, ma quando la carcerazione di lui è recente, è l’istinto a portarle, o almeno così pare. Che sciorinano confezioni di parmigiano e buste di affettato, compulsando le liste di ciò che è lecito o meno consegnare attraverso i pacchi, per riprendere poi rassegnate quanto è dichiarato “non consentito”, e che magari non si trova in elenco né tra i generi permessi né tra quelli proibiti. Che contano banconote all’ufficio cassa, affinché siano versate sul conto corrente carcerario del proprio uomo – a cui è negato maneggiare denaro – e lui abbia di che acquistare un pezzo di sapone o un tubetto di dentifricio (prodotti ai quali è vietato l’ingresso, venduti all’interno della struttura, senza poter scegliere la marca né verificare il prezzo). Che sfilano dai propri corpi anelli (la fede no, quella è “consentita”) bracciali orologi collane orecchini, riposti nelle borse e negli armadietti, per poi sottoporsi irrigidite o distratte alla perquisizione da parte delle agenti di polizia penitenziaria; e magari tornare indietro, alla casella di partenza (ovvero all’armadietto assegnato), con in mano una cintura o un oggetto dimenticato in una tasca (più avanti, prima del colloquio, lasceranno anche sciarpe e cappelli). Che percorrono un cammino segnato, sostano in sale dagli orologi rotti, attendono strette nei cappotti l’ora di colloquio con lui. Figlio, fratello, sposo, padre, compagno.Donne di tutte le età, in ragione del legame con l’uomo detenuto e in ragione del fatto che di uomini detenuti ce ne sono di tutte le età, pur con una prevalenza della fascia compresa tra i trenta e i quarant’anni (poco meno di un terzo del totale).No, non è soltanto una questione di numeri. L’accudimento, da sempre, è affidato al genere femminile.E così le donne dei detenuti si trovano a svolgere non un doppio, ma un triplice compito: impiego per mantenere la famiglia, lavoro domestico, cura del proprio uomo ristretto. I reclusi negli istituti di pena (la denominazione non è casuale) subiscono infatti un processo di infantilizzazione, di riduzione dell’identità ai minimi termini. È l’istituzione totale: alla privazione della libertà corrispondono minorità e dipendenza, parzialissima capacità di autodeterminazione. Sia i gesti quotidiani (accendere un interruttore, leggere un libro, fare una doccia), sia i tempi e i ritmi degli uomini detenuti sono regolati da altri. «Simbolo massimo, più rappresentativo e beffardo, di quella condizione – scrive Luigi Manconi - è la procedura delle richieste. Sarà un caso, ma qualunque esigenza e qualunque necessità, qualunque contestazione e qualunque diritto, passano attraverso un metodo di interpellanza scritta alla direzione del carcere, che non si chiama domanda, ma domandina». E che dire dei cinquanta - sessanta bambine e bambini, da zero a tre anni, reclusi con le loro madri detenute in carcere? La legge prevede che queste possano tenerli con sé, in istituti a custodia attenuata, che tuttavia sono insufficienti. Una vergogna...Accudimento e protezione: le donne dei detenuti sono prima di tutto madri, anche se all’anagrafe risultano sorelle, spose, figlie, compagne. Intente a preparare pacchi di viveri e indumenti secondo il regolamento di quel determinato penitenziario (no, non ce n’è uno solo per tutte le case di reclusione), perché per gli uomini ristretti l’amministrazione spende poco più di tre euro al giorno per tre pasti. Vigili sul bilancio familiare, per mettere da parte qualcosa per loro, affinché possano provvedere all’acquisto di generi alimentari e di conforto. Capaci di tradurre i passaggi del giudizio come legali esperte, in costante contatto con l’avvocato difensore, per mantenere i propri cari aggiornati sulla situazione processuale (oltre un terzo dei ristretti è in attesa di primo giudizio o condannato in via non definitiva). Protese, infine, verso l’ora di colloquio, spazio collettivo nel quale sono contenuti - o liberati - sguardi, parole, gesti. Letteralmente protese, perché la persona ristretta in regime di detenzione ordinaria ha diritto a un massimo di sei ore di colloquio al mese e a una telefonata della durata massima di dieci minuti a settimana. La pena consiste nella privazione della libertà, non nella mortificazione degli affetti, che di fatto è sancita dall’ordinamento penitenziario e che rende la carcerazione ancora più inumana.Le donne dei detenuti danno prova a sé stesse, ai propri uomini – costantemente presenti con la loro assenza - e all’universo mondo di quanto sia forte il desiderio di amore assoluto e totale, anche attraverso il sacrificio di sé, che dà senso alla vita di chi lo sceglie.Nulla, infatti, è più facile che lasciare un uomo recluso, se questi è un «amico di ventura», l’esatto contrario dell’amico caro, dell’amico autentico e non mutevole secondo fortuna. Per Dante, «l’amico mio, e non de la ventura», l’anima beata di Beatrice non esita a scendere in inferno e a chiedere soccorso a Virgilio, affinché lo guidi verso la salvezza e la luce; con trepidazione, questa donna di paradiso esprime un’urgenza indifferibile e assoluta, condivisa da tante, tantissime donne in carne e sangue: «amor mi mosse, che mi fa parlare».
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