L’Emergenza Nord Africa, caratterizzata dall’arrivo di decine di migliaia di richiedenti protezione internazionale, sancisce definitivamente la trasformazione dell’Italia in terra d’asilo.A dire la verità non si tratta di un dato estemporaneo: al fianco dell’incremento esponenziale del numero di cittadini stranieri si registra già da anni, infatti, una crescita costante di richieste di protezione internazionale, e ciò pone l’Italia – subito dopo gli Stati Uniti, il Canada, la Germania e la Francia – tra gli stati maggiormente esposti, tra i paesi industrializzati, ai flussi per richieste di asilo.Tale passaggio è avvenuto gradualmente. Nel periodo tra il 1952 e il 1989 furono presentate in Italia 188.188 domande di richiedenti asilo, di cui una minima parte in seguito ha optato per una residenza permanente. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), aggiornati al 1991, solo 12.203 rifugiati riconosciuti dal governo italiano in quel periodo risultavano “stabiliti in Italia”. Lo scenario è cambiato radicalmente con l’abrogazione della cosiddetta “riserva geografica” (1990), ma ancora di più con le ripetute emergenze degli anni Novanta, che hanno portato in Italia diverse decine di migliaia di persone, provenienti prevalentemente dall’area balcanica, e più di recente con gli sbarchi sulle coste calabresi e siciliane di richiedenti asilo provenienti dall’area mediorientale e africana. Di fronte a un mutamento di scenario così radicale, si è preferito a lungo ricorrere all’emanazione di leggi o decreti ministeriali ad hoc, anziché affrontare il problema con una normativa organica. Tale lacuna è stata solo parzialmente colmata dal processo di unificazione comunitaria in materia d’asilo, che ha inevitabilmente condizionato le politiche italiane. Nonostante gli indubbi e numerosi progressi di carattere organizzativo e normativo, il completamento di un sistema nazionale si può considerare infatti tutt’altro che compiuto, e ciò determina fenomeni di disagio sociale, soprattutto nelle principali aree urbane. Infine, di fronte al flusso straordinario causato dal conflitto in Libia, si è assistito a un sostanziale “collasso” dei sistemi “ordinari” d’accoglienza.Il ripensamento del sistema di accoglienza dovrebbe partire dalla migliore calibrazione dei servizi in base allo status legale dei migranti e alla loro reale vulnerabilità, tenendo conto delle fasi d’accoglienza precedenti e in un’ottica di gradualità della presa in carico. Urgono inoltre ulteriori interventi, volti a favorire un più veloce inserimento socio-lavorativo per quanti non riescono a trovare un posto nei circuiti di seconda accoglienza, il potenziamento (in collaborazione con regioni e province) delle attività di formazione professionale già durante la fase della prima accoglienza e forme adeguate di job-matching tra domanda e offerta di lavoro a favore dei titolari di protezione internazionale o umanitaria. Per implementare questi interventi sembra infine indispensabile ridisegnare la “mappa della governance”, valorizzando maggiormente il ruolo del ministero del lavoro e delle regioni e sollecitando un collegamento proficuo con il mondo di lavoro.La complessità del problema, nonché l’eterogeneità degli interventi evidenzia comunque l’esigenza di un maggior coordinamento, sia a livello nazionale che a livello regionale, al fine di assicurare una maggiore sinergia, evitando la sovrapposizione di iniziative uguali o simili e valorizzando le esperienze positive.Tali misure contribuirebbero in maniera determinante a un migliore funzionamento del sistema d’asilo (concretizzando finalmente gli alti ideali che hanno ispirato i padri costituenti). Del resto, l’importanza, le dimensioni e la strutturalità del fenomeno dell’asilo in Italia di oggi non permettono più che tale tema continui a essere trattato come una questione secondaria (come ha avuto modo di esporre nel mio recente volume Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d’asilo in Italia dalla Costituzione ad oggi, Franco Angeli 2011).
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