Colatore Muzza, l’assenza di sensibilità

Caro direttore, come già accennato, eccoci al secondo contributo sulla triade che stiamo dedicando al Colatore Muzza. Nel primo abbiamo affermato che è mancata la competenza ovvero la capacità di porsi collettivamente un quesito sul da farsi e ricevere una risposta condivisa. E abbiamo visto com’è finita. Una seconda cosa che è mancata è la sensibilità. Ci è mancata, cioè, la capacità di intuire la bellezza che se ne sta nascosta nella natura, nelle sue espressioni più evidenti come un fiore o un animale, ma anche in quelle meno visibili, come il fluire dell’acqua e il suo modellare il territorio. Perché è mancata? Per molti motivi, di matrice prevalentemente culturale. Gli italiani non sono abituati a riconoscere la bellezza; proprio loro, che hanno regalato la bellezza al mondo e che possiedono, a detta degli esperti, una buona metà del patrimonio di bellezza storica, naturale, artistica dell’intero globo.È un gap che ha dell’incredibile, se si pensa a quel che ha fatto l’Italia nei secoli per raccogliere questa bellezza, per conservarla, per mostrarla. Salvo poi distruggerla, o permetterne la distruzione nelle fasi di crisi profonda. Non possiamo certo legare i fatti della Muzza all’attuale crisi del paese, ma la suggestione è forte.Da cosa deriva, questa insensibilità alla bellezza di interesse comune? È retaggio di un passato di povertà che ci rende famelici nei confronti di ogni occasione di trasformazione del territorio? È l’assenza di programmi didattici adeguati nelle scuole di ogni grado ? È la prevalenza autoritaria di cenacoli di affaristi poco interessati al bene comune ? Oppure è una visione antiquata e distorta del diritto d’impresa che si oppone a ogni ostacolo frapposto alla sua corsa verso il profitto privato? La risposta corretta sta un po’ in tutto questo. Esiste una scarsa o nulla cultura naturalistica, che è tipica dei popoli europei meridionali. Esiste un’impresa che vede in ogni sedime pubblico, dalle terre del demanio ai reliquati, l’occasione di far soldi facili (e troppo spesso pubblici). Esiste un modo di insegnare l’ecologia troppo spesso svincolato dal rapporto con l’ambiente naturale, rimanendo pura astrazione. Si genera dunque, per l’effetto combinato di questi fattori, l’incapacità di comprendere la bellezza di natura e paesaggio.La cosa singolare, a ben pensarci è che in Italia la bellezza diviene un valore solo se deriva dall’attività umana. Sono belli i quadri, le sculture, le architetture, i giardini, le industrie, la moda, il design, l’arte moderna. E’ considerato bello solo ciò che deriva da una modifica più o meno profonda del paesaggio che ci circonda. Al contrario, quel che naturale è selvaggio, infido, inquietante. I boschi lasciati alla natura sono «sporchi» e quindi brutti, le edere che si abbarbicano sugli alberi vanno tolte, perché disordinate, gli strati arborei e i cespugli delle foreste mascherano rischi, animali, minacce più o meno oscure. È come se la rivoluzione estetica del romanticismo non fosse mai passata in questo Paese. Togliamo quel poco di “disordinato” che rimane, e lasciamo solo il canale «pulito», perché solo così è «bello». Un “cupio semplifichi”, mi si perdoni il neologismo, che tende a trasformare tutto in un mondo elementare. Ora, questa percezione povera e deprimente di ciò che ci circonda era sostenibile fino a qualche decennio fa. Forse era anche comprensibile. È divenuta invece una tara, una carenza grave nell’Italia del terzo millennio, che si ritrova sempre più distaccata dagli altri paesi, europei e non solo.Eppure ci sono molti modo per comprendere, anche intuitivamente, quanto sia importante preservare questa bellezza. La bellezza della natura, dell’ambiente, del paesaggio attiene alla forza pervasiva della vita, che è il vero, unico e straordinario fenomeno che caratterizza la Terra. La biodiversità è l’infinito differenziarsi in forme e colori, suoni e comportamenti della vita sul nostro pianeta, di quell’incredibile potere che la natura, a seconda di come la si voglia vedere, si è data o ha ricevuto; quello di duplicare, moltiplicare e differenziare se stessa nel tempo, adattandosi e contemporaneamente mutando l’ambiente fisico in cui si esprime.La comprensione dell’importanza di questo fenomeno, la nostra sensibilità nei suoi confronti è un passaggio culturale basilare, che non trova ostacoli sul piano ideologico, proprio perché “la vita meravigliosa”, come è stata chiamata da Stephen Jay Gould, non necessita di spiegazioni, né di comprensioni. È lì, da ammirare, gestire o custodire, a seconda di come uno la pensa, laico o credente che sia.Ed è anche un elemento unificante in un frangente storico inquieto. L’Europa e il mondo intero si interrogano sulle crisi e sulle loro conseguenze. Su come saranno possibili le convivenze, le coesistenze, i contrasti, le paci o le guerre. E tutti cercano affannosamente un ubi consistam, un riferimento qualunque, purché solido. C’è chi lo cerca nelle religioni, chi nella difesa delle tradizioni, delle nazioni, delle purezze di varia natura. E invece basterebbe guardarci intorno per capire che in una società umana che muta con velocità tali da impedire ormai interpretazioni coerenti e durevoli, esiste un solo elemento, una sola risorsa stabile, che non muta nel tempo dell’uomo. È l’ambiente in cui viviamo. Non è la difesa della purezza della nazioni in una popolazione globale che si mischia. Non è nemmeno, parlo per me, nella difesa di tradizioni religiose, che anch’esse devono cambiare e adattarsi al nuovo. Ma è nell’ambiente naturale che ci circonda, nel paesaggio. E’ quello l’indirizzo al quale l’uomo di mezzo puo’ fare sempre riferimento. Gli Stati Uniti sono stati il primo paese, e la prima nazione, a creare aree protette. Molte sono le ragioni: strategiche, culturali, economiche. E se il paese che da duecento anni vince la sfida della modernità, in quanto meglio capace di assorbire i più disparati fenomeni economici e sociali (crisi, immigrazione, differenze culturali e religiose), trasformandoli in una formidabile leva di sviluppo, se questa nazione, dicevamo, ha creato insieme alle sue prime istituzioni le aree protette, una domanda dobbiamo farcela. Fra cento anni, cosa rimarrà, a testimonianza della nostra terra ?Il Colatore Muzza, disastri permettendo, rimarrà. Sarà ancora lì, a segnare un territorio, un ambiente, una storia e una cultura.Che rimanga tutto il resto, non ci scommetterei.

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