È inevitabile notare il carattere “di transizione” che l’età contemporanea ha assunto. Viviamo gli anni in cui la corsa al progresso cominciata nel Novecento in modo “specializzato”, limitato ad alcuni campi, si fa totale e si estende a ogni aspetto della realtà. Tutto in questo secolo è dinamico, in crescita, in movimento. Ma, come le condizioni di vita si evolvono, così fanno le responsabilità: ogni individuo si trova costretto a partecipare a questo continuo cambiamento, di cui nessuno può prevedere il risultato, e sarà chiamato a rispondere del ruolo avuto una volta che la “corsa” sarà terminata. E, con queste nuove responsabilità, la transizione, la rottura con il passato è completa: si passa così dal Novecento, considerato teatro per eccellenza delle responsabilità “di massa”, a un secolo in cui ciascun individuo ha il potere di decidere di un frammento di realtà. E non è cosa da poco.
Responsabilità ambientali
Indubbiamente, quando si pensa ai pericoli del nuovo millennio, l’accento è posto immediatamente sul rapporto uomo-ambiente. E a ragione: il degrado ambientale, oltre ad essere un rischio imminente, è uno degli aspetti in cui la responsabilità individuale è più forte. In questo campo, “per la prima volta, alla sbarra non c’è più solo l’industria, ma ogni consumatore finale. In pratica, ogni abitante della Terra è colpevole” (Storia culturale del clima, Wolfgang Behringer) Ma colpevole di cosa? Di non sapere, o non volere, scegliere i prodotti di aziende che non scaricano le scorie nei fiumi, che non rasentano il monopolio su determinate materie prime, al limite della legalità, che non devastano il territorio. Perché i cittadini non vedono, o non vogliono vedere, quando basterebbero pochi minuti di navigazione internet per verificare l’impatto che i prodotti acquistati hanno sull’ambiente. E poi le responsabilità dirette: responsabilità di una luce lasciata accesa quando nessuno è in casa, di un’automobile impiegata per percorrere duecento metri, di una bottiglia di plastica buttata fra i rifiuti non riciclabili perché “tanto una bottiglia non cambia nulla”. Una no, ma “una” in mille case diverse sì. In questo panorama, l’unica possibilità è la sensibilizzazione; e mentre la colpa diventa dei singoli, l’ammonimento è collettivo: per combattere il disinteresse degli individui sono nate associazioni e “la protezione della natura ha acquistato […] il carattere di una vera e propria industria” (Ibidem), poiché convincere i cittadini del ruolo che giocano è diventato così complesso da richiedere gli sforzi combinati di molti.
Responsabilità di “crescita”
Un altro argomento al centro di dibattiti è certamente il problema della crescita demografica. Dopotutto, non si può trascurare il fatto che, se sono stati necessari milioni di anni per raggiungere il primo miliardo di esseri umani, per passare dal quarto al quinto è servito poco più di un decennio. E le possibilità per il futuro sono preoccupanti: “Se un simile andamento proseguisse, la Terra, sicuramente, sarebbe sovraffollata in modo spaventoso prima della fine del ventunesimo secolo” (Lo sviluppo è libertà. Perché non c’ è crescita senza democrazia, Amartya Sen) Dopotutto, già al termine del Settecento erano state avanzate ipotesi ben poco ottimistiche: allora Malthus aveva espresso i suoi dubbi sulla crescita demografica, affermando che mentre essa avviene in modo esponenziale, “in modo geometrico, i mezzi di sussistenza crescono in modo aritmetico” (Saggio sul principio della popolazione, Malthus, traduzione libera dall’inglese) E, sebbene i beni di prima necessità non si siano ancora esauriti, i timori di Malthus risultano confermati. Ma come intervenire?
Certamente, il controllo delle nascite porterebbe verso una soluzione, almeno temporanea. Ma se questo non può essere imposto, in quanto limiterebbe significativamente la libertà personale, la responsabilità è di nuovo individuale. Diventa così compito dei singoli limitare la propria discendenza, in nome della necessità di pensare a “quanto spazio” avranno i propri figli.
Responsabilità del “poi” e dell’”altrove”
Riguardo a questo “spazio” per le future generazioni, poi, il problema si estende anche alla qualità del territorio che lasceremo in eredità ai nostri discendenti.
“Ogni essere umano ha dei doveri nei confronti degli altri esseri umani, delle generazioni che verranno. […] L’umanità ha in particolare il dovere di mostrare empatia verso le generazioni future e verso le altre specie necessarie alla sua sopravvivenza.” (Domani, chi governerà il mondo?, Jacques Attali) Questo significa accettare che ogni nostra azione prepara il nostro lascito e il futuro di coloro che verranno dopo di noi. Ogni ferita inferta al Pianeta potrà diventare insanabile durante la vita dei nostri figli, ogni conflitto cominciato oggi potrebbe trasformarsi in una guerra mondiale alla nascita dei nostri nipoti. E, anche qui, le responsabilità sono personali: è personale la scelta del mondo che vogliamo donare ai nostri discendenti. Siamo un po’ come il padre di famiglia che deve scegliere se indebitarsi, sapendo che non riuscirà a restituire la somma prima della sua morte e che dunque lascerà ai figli il fardello. Ogni atto di diplomazia mancato, ogni sfruttamento, ogni esaurimento di risorse è un “prestito” che prendiamo, che ognuno di noi prende, dal Pianeta. Dobbiamo ricordare che non spetterà a noi restituirlo, e con gli interessi.
Interessi che, poi, non vengono riscossi solo nel futuro, ma anche nell’”altrove”, nel presente. Ogni prodotto comprato senza verificarne la provenienza incoraggia lo sfruttamento di un lavoratore, forse dall’altra parte del mondo, ma sempre nel nostro mondo. Dopotutto, “ogni essere umano deve disporre di una cittadinanza mondiale” (Domani, chi governerà il mondo?, Jacques Attali) e dunque considerare le ripercussioni delle proprie azioni su ognuno dei suoi concittadini. Che sono quasi sette miliardi.
Responsabilità dell’”altro”
e di “noi”
Il tema della coesistenza, inoltre, apre numerosi altri dibattiti nel momento in cui l’”altrove” si sposta “qui”. “Incontrare lo straniero fuori dalle nostre frontiere è relativamente facile […] Essere costretti a modificare questo “da noi”, il nostro modo di essere “a casa”, è più difficile.” (Condividere il mondo, Luca Ingroy) Perché in questo “impavido mondo nuovo”, sempre in movimento, sempre, per l’appunto, nuovo, le certezze e le tradizioni perdono valore. L’idea di patria si trasforma in territorio condiviso, pieno di potenzialità e occasioni di scambio che vanno afferrate: è del singolo, infatti, decidere se aprire la porta al “nuovo”, a quello che è così comunemente definito “diverso”, ma in realtà è “di più”. E in un’epoca in cui i confini si fanno trasparenti non è delle masse la scelta dell’incontro: è di ciascuno. Attraverso questo pensiero, poi, il ruolo dell’individuo ne esce confermato. Si potrebbe infatti mettere in dubbio l’importanza delle scelte personali in un mondo tanto affollato, ma per comprendere l’influenza delle singole azioni è sufficiente pensare al rapporto “con l‘altro.” Nel presente, infatti, accogliere “lo straniero” significa effettivamente salvare la sua vita, o migliorarla significativamente, in un panorama di guerra ed esilio. L’accoglienza è singola: spetta ai governi aprire le frontiere, ma ai cittadini condividere le proprie nazioni. Se non c’ è accoglienza, da parte di ciascuno, nessuna legge può intervenire. Questa è dimostrazione definitiva del potere di ognuno. Potere che non può essere “sprecato”: perché quel “frammento” di mondo, su cui possiamo decidere, potrebbe essere il tassello che non si incastrerà nel mosaico della realtà, e che rovinerà l’opera d’arte che il nostro pianeta e la nostra civiltà potrebbero essere.
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