Carceri italiane: quale promozione?

“All’italiana”: ovvero con leggerezza e superficialità, con colpevole furbizia, di rinvio in rinvio.La soluzione “all’italiana”, ancora una volta provvisoria poiché nulla scioglie né risolve, era nell’aria: il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha infatti concesso al nostro paese una proroga di un anno per portare a compimento il percorso di riduzione del sovraffollamento carcerario. Il termine già concesso all’Italia era scaduto il 28 maggio, il Comitato si è pronunciato il 5 giugno, non con una promozione – come si è detto – bensì con un rinvio «al più tardi» al giugno 2015, quando il Consiglio d’Europa riprenderà in esame la situazione dei penitenziari italiani.La vicenda è nota: l’8 gennaio 2013 la Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) condanna l’Italia a risarcire sette uomini detenuti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, poiché reclusi per molte ore al giorno in uno spazio inferiore a tre metri quadrati per ciascuno. È la seconda volta (la prima risale al 16 luglio 2009) e, come in un’aula di giustizia, la recidiva costituisce un’aggravante. Il governo allora in carica, guidato da Mario Monti, presenta ricorso (un ricorso strumentale, si direbbe pure in un’aula di giustizia, se a presentarlo fosse un detenuto); la condanna è confermata il 27 maggio 2013. All’Italia è concesso un anno di tempo (eccoci dunque al 28 maggio 2014) perché rientri nei parametri europei anche in materia di diritti umani. Intanto, la CEDU non dà seguito ad altri 6.829 ricorsi di altrettanti reclusi, ricorsi del tutto analoghi a quelli presentati con successo da Izet Sulejmanovic e Mino Torreggiani e dunque, con ogni probabilità, destinati a essere accolti (con un esborso per risarcimenti da parte dello stato italiano valutato in cento milioni di euro).Ma, in ultima analisi, sono stati presi provvedimenti efficaci per ridurre il sovraffollamento carcerario, oppure no?Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sì: in un anno, il numero dei reclusi è sceso di oltre seimila unità (da 66.271 a 59.061); il governo guidato da Enrico Letta ha varato due decreti, convertiti in legge, cosiddetti “svuota carceri” (Legge 9.08.2013 n. 94 e Legge 21.02.2014 n. 10); l’immigrazione clandestina è stata derubricata da reato; la Corte costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità della Legge Fini – Giovanardi in materia di disciplina degli stupefacenti e, recentemente (il 29 maggio scorso), la Corte di Cassazione ha stabilito che gli effetti della cancellazione della legge – che equiparava droghe cosiddette leggere e pesanti - tocchino non solo gli imputati ancora in attesa di giudizio, ma anche i condannati in via definitiva, la cui pena dovrà essere ricalcolata, ovvero ridimensionata; il che porterà alla liberazione anticipata di alcune migliaia di detenuti (forse tremila, non di più).Secondo i Radicali Italiani (che hanno redatto e inviato a Strasburgo un dettagliato dossier in materia), invece, no: il numero dei ristretti è diminuito, ma il risultato è modesto e comunque insufficiente, anche in ragione dei posti effettivamente disponibili nei penitenziari italiani, che non sono né i 48.309 regolamentari dichiarati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) il 31 marzo, né i 43.527 reali ammessi dal medesimo DAP soltanto due giorni dopo, ma circa 40.800, con un indice di sovraffollamento ancora inaccettabile (i tre metri quadrati per ciascuno sono ora superati di qualche centimetro); la riduzione di pena per i detenuti già penalizzati dalla Legge Fini – Giovanardi non è automatica, ma subordinata alla richiesta dei legali e alla decisione dei giudici dell’esecuzione, e se non vi sarà un provvedimento legislativo mirato le Corti d’Appello saranno letteralmente sommerse dai nuovi procedimenti, che potrebbero anche risultare difformi tra loro. È vero: piccoli passi in avanti sono stati compiuti, ma la via è ancora lunga, e non se ne vede la fine.Quale che sia il punto di vista, è desolante. Una assoluzione con formula piena sarebbe stata scandalosa, dopo anni di inazione, nei quali i diritti umani, i diritti degli ultimi - perché nessuno è ultimo quanto un recluso – sono stati violati nell’indifferenza quasi generale; d’altra parte, una condanna senza appello sarebbe stata vergognosa in termini di credibilità e rovinosa in termini pecuniari per lo Stato italiano, con una ricaduta negativa per cittadine e cittadini in quanto contribuenti.Ora a pagare sono soltanto donne e uomini detenuti. Pagano sempre, pagano comunque. Pagano il fio? Non solo. Pagano quando sono in attesa di giudizio e poi scarcerati perché assolti, dunque innocenti (accade a un recluso su tre). Pagano quando scontano una detenzione dai tempi incerti, a causa della lentezza estenuante di corti e procedure. Pagano quando devono presentare istanza affinché si riconosca loro un diritto, e quando l’istanza è inascoltata. Pagano quando sono malati, e non ricevono cure e medicinali (o li acquistano senza l’esenzione alla quale hanno diritto per patologia). Pagano – banalmente - quando il regolamento penitenziario consente ai familiari di portare loro mele pere pesche, e non altri frutti: certo, si vive anche senza fragole ciliegie albicocche, ma qual è il senso? Forse la vendita di questi frutti nello spaccio interno, a prezzi doppi rispetto a quelli praticati all’esterno?Il problema non è il sovraffollamento, non solo (i detenuti, come i deportati, non sono numeri). Il problema è il vuoto di giorni sempre uguali (tanto da perdere letteralmente la nozione del tempo): negato il diritto all’istruzione e alla formazione (perché nulla è organizzato o perché l’iscrizione a un corso riscuote tanto successo che non vi sono locali idonei a contenere gli allievi, e allora non lo si fa); negato il diritto al lavoro, non solo all’esterno ma anche all’interno del carcere (i detenuti lavoranti erano, al 30 giugno 2013, soltanto 13.727, di cui 11.579 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria), tanto che la possibilità di effettuare lavori di pulizia o piccola manutenzione (per un compenso modestissimo) è assegnata a turno, in modo quasi premiale. Il problema è la tutela della salute e l’accesso alle cure, troppo spesso reso impossibile da indifferenza e immobilismo. Il problema è la mortificazione degli affetti e delle relazioni, compresse in sei ore di colloquio mensili, che con la persona reclusa puniscono madri e sorelle, spose e compagne, figlie e figli (chi non abbia mai visto il commiato tra un bimbo di sei sette anni e il padre ristretto, allo scadere del tempo concesso, non può capire).Di fronte a questo scenario, gli interventi realizzati nell’ultimo anno, che Strasburgo considera «significativi», sono invece, come scrive il senatore Luigi Manconi, «tuttora drammaticamente insufficienti». L’Italia – si è detto - è stata promossa. Sì, all’italiana.

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