Ero da poco atterrato ad Istanbul quando seppi, con altri, che qualcosa di “irreparabile” era successo a New York. Difficile dimenticare il senso di smarrimento provato quella sera e quei giorni; difficile dare conto dei fiumi di parole spesi per raccontare l’evento e il suo senso. Mi sono sempre rimaste impresse, tuttavia, le parole scritte per l’occasione da Ettore Masina, in un articolo dal titolo eloquente «Il sole oscurato», pubblicato su Segno nel mondo 14/2001: «“C’è un tempo per piangere e uno per gioire” dice il Qohelet, in un lungo elenco delle possibili vicende della storia. Ma c’è un tempo che lo scrittore biblico non aveva previsto ed è il tempo dell’orrore e della confusione. È il tempo che stiamo vivendo. (…) Noi che ci sforziamo di guardare la Terra con gli occhi del Vangelo dobbiamo, dopo la sosta sulle tombe, riprendere il lavoro per un mondo più giusto. Dobbiamo reimparare l’amore e il coraggio dell’amore. Dobbiamo testardamente aprire il cuore ai poveri, volere per loro una giustizia che non è quella “infinita” reclamata dai potenti offesi ma il diritto alla vita, alla dignità e alla libertà di tutti gli essere umani». Sono tornato spesso su queste parole, lette quasi per caso: noi ci sforziamo di guardare la terra con gli occhi del Vangelo, nonostante la forza travolgente degli avvenimenti, sempre reimparando ciò che è essenziale e mai viene smentito dalle assurdità più tragiche. Cosa ha insegnato l’11 settembre alle Chiese? Cosa ha insegnato a me l’11 settembre? Nulla di più di quanto appena detto: e non è poco.A dire la verità, l’11 settembre ci ha insegnato anche qualcos’altro: ci ha buttato in faccia la consapevolezza che bisogna fare sempre i conti con gli altri; che il mondo non appartiene soltanto a qualcuno; che le culture, i punti di vista e le stesse religioni non esauriscono la comprensione del reale e hanno bisogno di essere dette e accolte con sobrietà, pacatezza, discrezione e senso delle proporzioni. L’11 settembre, una volta di più, ci ha messi in guardia da un uso distorto e aberrante della religione, dalla tentazione di assoldare Dio per battaglie personali e di gruppo, dalla facile frenesia di dividere il mondo in buoni e cattivi, dall’illusione di una fede facile e aggressiva che può giungere ad accecare, piuttosto che ad illuminare. Oltre tutto, il vero banco di prova delle religioni è la loro capacità di rendere migliore il mondo, senza che nessuno debba pagare l’arroganza degli altri, o subire l’ingiustizia di alcuni. In questo, le religioni, le guide religiose e i credenti hanno una vera responsabilità sociale. L’Islam, da allora, è apparso sullo scenario pubblico con una forza dirompente. Mi verrebbe, però, da correggere l’espressione dicendo che l’Islam ci è stato “restituito”, in modo aspro e amaro, fuor di dubbio. Mi spiego: storie e occasioni di convivenza o di conoscenza non sono mai mancate tra Cristianesimo e Islam, tra Occidente e Oriente, tra Mediterraneo, Maghreb, Vicino ed Estremo Oriente, ma, d’improvviso, siamo stati chiamati a prendere sul serio la domanda di verità e di legittimazione che sentivamo salire, dentro azioni e proclami per altro non condivisibili. Il rischio dell’incontro tra credenti va oggi assunto in tutta la sua interezza, ben consapevoli di quante sfumature possa prendere al giorno d’oggi. Migrazioni, integrazione sociale, mediazione culturale, dialogo interreligioso sono alcune parole del vocabolario odierno che la comunità ecclesiale deve ben imparare a declinare, senza mai perdere il senso della giustizia. Parlare di Dio costa caro, così come costa caro dare una adeguata espressione alla fede. Ma, testardamente, vogliamo guardare la terra con gli occhi del cielo, domandando pace, benessere, giustizia, sicurezza, rispetto dell’ambiente, con la consapevolezza che, davanti ai fatti di sempre, siamo spettatori impotenti solo se scegliamo di esserlo. Peccato che a ricordarci questo abbia contribuito un fatto tanto penoso come quello dell’11 settembre 2001.
© RIPRODUZIONE RISERVATA